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Decimo dono: la preghiera del dire sacrificale disponente
al fare.
La feccia del calice ecclesiale: è data dal Padre che quale
vignaiolo della Chiesa Figliale pota, per una maggior
fruttificazione, e taglia i rami infruttuosi. Quando, con chi
lo fa, non lo sappiamo: sicuramente non di là, ma di qua,
come la potatura la fa di qua.

Pneumatica magia quella del visuato Paterno che tocca il
vecchio fideato e tutto lo rinnova. Tocca la preghiera del
dire egoisticale ed ecco uscir fuori la preghiera del fare
sacrificale: quello che mi do al piacerale, quello che mi
danno i fratelli sacrificatori, quello che mi dà il corpo mio.
Al suo sacrificale fisico Gesù si accosta con una triplicata
preghiera; è un dire sacrificale.
Pure piegato alla volontà del Padre, domanda l’allontanamento
di un calice ben preciso: ‘questo calice’. Ci fu spontaneo
metterlo in relazione al suo sacrificale fisico e vedervi
un assalto di paura e un tentativo di fuga. Dimostrato che
in quel calice non c’è il suo imminente sacrificale fisico, ci
siamo rivolti al sacrificale spirituale, pneumatico, reso possibile
dal primo, che opera nel suo Spirito la metamorfosi
Figliale, che lo fa irradiabile ed ecclesiabile. La prima
ecclesiazione è morale: se la unisce l’umanità moralmente
e se la unisce con la parola annunciata e creduta, coi suoi
comandi proibitivi e positivi osservati.
Questa Chiesa dall’unità morale gli dà da bere un calice
amaro assai: eresie e scismi, lotte religiose e odi, peccati di
ogni genere formano il suo calice che beve con devoto
silenzioso amore sacrificale.
Né paura né fuga neppure quando arriva alla feccia come ai
giorni nostri nei quali la sua Chiesa che è in noi si sta sfideando
e smoralizzando.
Non abbiamo ancora detto tutto su quel calice di amarezza
ecclesiale morale. Gesù i suoi discepoli se li unisce moralmente
con la parola creduta e i comandi eseguiti. Questa
unità morale tra Lui e il discepolo, Gesù la illustra con una
bella immagine. È l’immagine della vite. Le componenti: la
vite, i suoi tralci, la loro fruttificazione, la loro inazione, la
potatura dei rami fruttiferi e il taglio inesorabile dei rami
infruttuosi. Il tutto Gesù lo personalizza così: ‘Io sono la
vite vera, voi i tralci. Il Padre mio è il vignaiolo’. Come mai
Gesù introduce il Padre come vignaiolo nella vigna del
Figlio? E non sarebbe capace il Figlio di trattenersi i tralci
fruttuosi e di eliminare quelli inattivi? Solo il Padre può fare
questo. Come mai? Donde viene la infruttuosità del discepolo?
Viene dal Padre; o meglio: dal Padre ecclesiato. Il
Padre per la sua metamorfosi si fa irradiabile ed ecclesiabile:
fa Chiesa con l’umanità intera e la fa in un modo sostanziale,
non solo morale, e la fa senza parola e senza fede, la
fa senza il consenso di alcuno. La faceva con un battesimo
cresimato Paterno incosciente. La Chiesa Figliale Gesù la fa
solo coscientemente e consensualmente e solo moralmente.
La Figliale viene a trovarsi nella Paterna.
La Figliale è condizionata dalla Paterna. Se la Figliale non
riesce a sciogliere la morte dell’amore della Paterna, questa
si afferma sulla Figliale; frutti sacrificali non se ne hanno, i
frutti egoisticali prendono il comando. Frutto egoisticale è
la morte dell’amore Paterno; è il Padre dunque che ha in
mano la forbice della vite. Con chi la usa non si sa.
Sicuramente l’operazione avviene di qua: mano alla forbice,
lame aperte sul tralcio che vi viene immesso, poi le due
lame si chiudono su di lui: è la sua resezione. Separato dalla
vite cade in terra, dissecca e va al fuoco. ‘Ogni tralcio che
in me non porta frutto lo toglie’. ‘Se qualcuno non rimane
in me sarà gettato via come il tralcio e si disseccherà; poi
viene raccolto ed è buttato nel fuoco e brucia’. Ecco il contenuto
della feccia del calice ecclesiale: un suo discepolo
che giace in Gesù se lo vede e se lo sente reciso da quel
Padre che accetta di vivere con lui l’eterna morte dell’amore.
Perdere un tralcio e vederlo andare al fuoco eterno dell’amore
è il calice di amarezza ecclesiale morale che il
Figlio beve senza paura e senza alcun tentativo di fuga.

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